
05. Via Ca’ Ruta, Calabria – Le Case
Questo quartiere si chiama Calabria perché qui abitava Antonia, la perpetua del dottore.
Era toscana, ma a quei tempi, per i vallebonenchi, dalla Toscana in giù era tutto “Calabria”.
Nella Calabria abitavano tanti bambini. Ricordo che giocavamo sempre insieme, con birilli di legno costruiti dai più grandi.
Ai tempi della guerra le case non avevano il gas. Le donne andavano a Montenero a fare la legna per il fuoco della cucina.
Dovevano scendere nel torrente, poi risalire, ridiscendere e risalire ancora, caricare i fasci di rami e i ceppi per poter cucinare.
Era una vita dura. Le donne mandavano avanti tutta la famiglia.
I bambini facevano i bambini, ma anche un po’ gli adulti.
A un certo punto della giornata ognuno doveva tornare a casa ad accendere il fuoco, per cuocere la pentola di verdure.
Quando la mamma arrivava, le verdure erano pronte. Le schiacciava e le mescolava alla pasta, o a quello che c’era.
Avevamo un servizio di ceramica con piatti tutti uguali: un gran lusso.
Alla sera, quando salivo in paese, nei caruggi vedevo scarafaggi grossi così, perché al piano terra c’erano le stalle.
Quasi ogni famiglia aveva conigli, capre e galline.
Mia madre aveva tre capre. Quando le mungeva, il secchiello si riempiva di latte schiumoso.
Aspettavo che si allontanasse per andare a rubare un po’ di schiuma col dito: era buonissima.
A noi bambini mancava il dolce.
Avevamo sempre una gran voglia di dolce. Eppure c’erano uova, latte, zucchero… si sarebbe potuto fare un budino, una crema con un po’ di farina e buccia di limone.
Ma forse non sapevano cucinare. O forse mancava la fantasia.
I servizi erano esterni, fuori casa, senza nemmeno un finestrino.
Si facevano i bisogni nei barili, che poi venivano portati via in spalla o con i muli, e svuotati nei piccoli appezzamenti di terra che ogni famiglia possedeva.
Era tutto difficile. Era tutto faticoso.
Io sono nata in una casa senza acqua né luce.
Le lenzuola rotte si rattoppavano e si usavano ancora a lungo.
Il sabato si faceva il bagno in una bacinella. C’era poca acqua, e tante malattie.
Con il secchio andavamo alla fontana del paese a prendere l’acqua.
A volte ne rovesciavo un po’ apposta, così mi mandavano di nuovo. E io ero contenta, perché alla fontana incontravo lui di nascosto.
Ci parlavamo un po’. A me è piaciuto subito. Quelle quattro parole che ci scambiavamo mi bastavano.
Conoscerlo è stata una cosa bellissima, davvero bellissima.
Anni dopo ci siamo sposati. E poi… è stato così per sempre.
Una volta si diceva:
Candu ti te marii, a tute e musche nun staghe a dà a pata.
(Quando ti sposi, smetti di dare la caccia alle mosche — cioè alle piccole cose.)