07. Via Scudier – Le Botteghe

Una volta i mestieri passavano di padre in figlio, per generazioni. Era la tradizione.
La vita lavorativa cominciava presto.

Quando ho iniziato a lavorare in falegnameria avevo undici anni, facevo la quinta elementare.
Si lavorava il legno locale: noce, ulivo, pino, larice.
Chi aveva bisogno — ad esempio di una picozza o di un magaglio — arrivava in bottega con il proprio pezzo di legno, da tagliare, piallare e lavorare per farne un manico.

Io, a dieci anni, andavo a scuola al mattino e il pomeriggio raccoglievo le olive a mano, quelle cadute per terra.
All’epoca si aspettava che le olive cadessero da sole, soprattutto col vento. Le raccoglievo nel cavagno e la signora mi dava qualche soldo.

A dodici anni andavo a fare la legna per il panettiere su a Montenero. Dovevo prendere i tronchi per il forno. Era un lavoro pesante.

Tumà faceva il pescatore. Veniva da Bordighera Alta con un carrettino per vendere i pesci. La strada non era asfaltata e lui saliva a piedi nudi.
Indossava sempre gli stessi pantaloni di fustagno, arrotolati come i pescatori.
Tumà iniziava a gridare già all’ingresso del paese: «Pesci! Bughe! Anciue!»
Tutti i gatti lo conoscevano, scendevano dal paese e si mettevano sulla piazza, lì dove c’è il gradino.
Lui metteva i pesci in una cesta, e, seguito dai gatti, veniva su.
Noi andavamo a comprare con il piatto in mano, perché non c’era la carta.

Il macellaio arrivava con la corriera del sabato. Per conservare la carne portava lastre di ghiaccio che poi rompeva in pezzi.
Noi bambini stavamo lì intorno per prendere le schegge, le lavavamo alla fontana e le leccavamo come fossero ghiaccioli. Per noi era un divertimento.

Quando serviva, si andava a prendere l’ostetrica in bicicletta, ai piani di Borghetto.

A Vallebona c’erano tre falegnamerie, un maniscalco per ferrare i muli, le sarte, quattro calzolai, sette frantoi tra il paese e lungo il torrente — e lavoravano tutti.
Adesso, neanche un frantoio.

C’erano due forni: si sentiva il profumo del pane caldo in tutto il paese.

Poi hanno aperto le botteghe: la latteria, cinque alimentari, due macellerie, una merceria, un’edicola che aveva di tutto e di più.
I negozi aprivano alle sei del mattino e chiudevano alle otto o nove di sera, senza giorno di chiusura — nemmeno la domenica.

Una volta non si vendevano salumi e formaggi, perché non c’erano i frigoriferi.
Le botteghe erano punti di riferimento per la gente del paese, luoghi d’incontro. Tutte le notizie passavano di lì.
Si sapeva sempre cosa succedeva.

La domenica, se avevamo i soldi, andavamo alla “Rosa Napoletana” — oggi “U Carugiu” — a comprare il gelato.

Nei negozi si andava con la sporta. C’erano tre tipi di pasta: spaghetti, farfalle, avemaria. E basta.
Ricordo i fazzolettoni a quadri bianchi e blu, legati col nodo, dove si metteva la pasta.

La merce era sciolta nei sacchi: zucchero, farina, frumento, crusca, farina di castagne.
Si prendeva con una sasura di legno.

La carta è arrivata dopo.
Io ero affascinata da Chiara, da come faceva i pacchetti. Le sue dita arricciavano la carta con una maestria…

Nella sua bottega, sugli scaffali in alto, c’erano vasi di vetro pieni di caramelle, mentine, valda, barchette di liquirizia.
Un vaso era pieno di cioccolatini: sembravano grandi, ma erano vuoti dentro, avvolti nella carta rossa. Erano bellissimi.

Con dieci soldi ci dava un pacchetto di mentine, oppure la cedrata effervescente.
La tenevamo in bocca senza inghiottire, così si gonfiava e frizzava tutta.

Una volta era così.

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