Divertimenti e cibi di un tempo

Quando ero piccolo, negli anni ’50, giocavo con i miei cugini, con mio fratello e con i miei compagni di scuola, e  non possedevamo cellulari, smartphones, tablets e altre diavolerie varie.

Giocavamo con biglie di vetro, con tappi imbottiti delle bottiglie di birra, e con le piccole macchinette che trovavamo nelle scatole di detersivi.   Era grasso che colava quando papà staccava con un coltello un pezzo di corteccia da un pino e poi, tagliando con abilità i bordi della corteccia, confezionava due barchette con un buco in mezzo per infilarci u rametto di legno “in struncu”, al quale infilava un pezzo di foglio di carta usata come vela, e noi le facevamo veleggiare nel pozzo sopra la casa Inutuvu.

Al pomeriggio niente merendine né bibite, ma solo un pezzo di pane con un filo d’olio, che ci scendeva “fin in s’e e unge d’i pei” (fino alle unghie dei piedi), , e l’ “aiga brüta” che Nonna Consolata chiamava così perché ce la preparava utilizzando la “bratta” della cicoria avanzata, con l’aggiunta di acqua tiepida e il succo di un limone.

Alla sera niente TV, niente computer, ma solo un libro da leggere sotto la debole luce di un lumino ad olio, dopo aver cenato grazie al minestrone da me stesso preparato (ci mettevo dentro persino le olive in salamoia).   Il menù che preparavo era sempre lo stesso: come primo, minestrone; come secondo,  minestrone; e come dessert, minestrone (se avanzava).

Durante tutta la giornata, quando avevamo sete, bevevamo l’acqua che andavamo a prendere con i fiaschi alla “funtana di ursi” (i maschi della mia famiglia erano detti “orsi”)o alla “funtana di carbui”, priva di additivi energizzanti o di vitamine varie.

Ci sporcavamo spesso giocando o lavorando, per cui andavamo più volentieri a piedi nudi.   D’estate mamma Cisa mi chiamava spesso “mae brüte” (mani brutte), e io mi chiedevo, altrettanto spesso, perché non guardava un po’ i miei piedi.

Noi, nati nell’immediato dopoguerra o pochi decenni dopo, siamo stati privi di internet, per cui non conoscevamo gli avvenimenti se non dopo tanto tempo, impossibilitati a chiedere a “Google” tutto quello che volevamo sapere; infatti ricordo quel giorno in cui a Bordighera un mio compagno di scuola mi aveva dato del ‘facocero’! Io me ne sono stato zitto, poi sono andato a casa a cercare il significato di quella parola sull’enciclopedia, e al mattino successivo l’ho aspettato all’ingresso della scuola e gli ho sferrato in faccia un pugno tremendo urlandogli: “Tu a me facocero non lo dirai mai più!” .  E così è stato.

Quando non andavo a scuola, all’ora di pranzo udivo mia nonna chiamare  tutti soffiando nella “lümassa”, una conchiglia di mare che emanava un suono cupo, ma che veniva sentito anche da molto lontano.

Ebbene, se quanto ho scritto finora venisse letto da un ragazzo o ragazza, cosa che ritengo purtroppo poco probabile, si chiederebbe sicuramente in che mondo vivevamo noi a quel tempo!   E dire che parlo di appena 60 anni fa!

Osservavamo tutti una tacita regola: “desbrögliasse”, ossia ‘arrangiarsi’. Oggi purtroppo  i giovani e i ragazzi non conoscono più questo verbo, che secondo me invece è fondamentale per avere successo nella vita.

E in questo modo noi “vecchi” siamo venuti col tempo grandi, e io anche scemo, ma sicuramente tutti sani, di testa e di corpo ….

E questa volta è il caso che a meditare siano i giovani, non noi …

Riccardo Lanteri

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