
04. Via Roma – La Guerra
Quando è scoppiata la guerra, nel 1940, pensavano che Vallebona sarebbe stata invasa. Così ci hanno sfollati.
In paese erano rimasti solo il prete, la postina Vittoria e tre o quattro uomini a fare la guardia.
Ci hanno portati in Piemonte per 18 o 19 giorni.
Siamo partiti in treno: noi bambini non c’eravamo mai saliti. Era come un’avventura. Guardando dal finestrino ci sembrava che gli alberi e le case camminassero. Noi piccoli eravamo felici.
La prima notte abbiamo dormito a Tortona, in un teatro, sulla paglia. Pensavo fosse una chiesa, per via dei grandi lampadari, che avevo visto solo nelle chiese.
Per cena ci hanno dato una brodaglia. Il giorno dopo ci hanno smistati in paesi diversi lì intorno.
Quando siamo tornati a Vallebona c’erano i fascisti.
A quei tempi si dovevano pagare i dazi a un certo signor Aiello, un siciliano con due baffi lunghissimi.
Quando mia mamma andava a macinare il grano, doveva portare una parte a lui.
Noi bambine, a mezzogiorno, portavamo il rancio ai soldati: due pentolini per mano. In cambio ci regalavano pezzi di cioccolato o fette di pane nero.
Da ragazzini raccoglievamo le schegge delle bombe tra gli ulivi. Per noi era un gioco.
Vallebona si era riempita di sfollati: arrivavano a piedi da Bordighera, Sanremo, Ventimiglia… magari con una capra, tutto ciò che avevano salvato.
Non c’era più un buco libero: avevano affittato anche fienili e cantine.
Molti uomini combattevano. Altri si nascondevano nelle campagne.
Io, da Negi, andavo a piedi a Seborga a prendere il pane per i partigiani nei boschi.
I tedeschi avevano sparato sulle mani a uno di loro, perché stava scappando.
Per noi bambini, però, tutto questo movimento era quasi una festa. Portava allegria.
Mio papà è stato un anno e mezzo senza scrivere. In realtà scriveva, ma le cartoline non arrivavano a causa della censura.
Un giorno, un collezionista di cartoline di guerra trovò una cartolina di mio padre in un mercatino e me la portò. Mia madre pianse tanto.
Mio padre era in Sardegna, in un reparto che costruiva bombe. Pensava: «Forse questa va a distruggere la mia famiglia.»
Quando è tornato, non ha mai più voluto parlare della guerra.
Il giorno del suo arrivo io avevo gli zoccoli. Correndo giù per andargli incontro li ho persi, ma non mi sono mai fermata finché non ho visto la divisa. Mi sono appesa al suo collo.
C’era tutto il paese intorno.
Un ragazzo, disperso in Russia, non è mai tornato. Ma sua madre ha continuato per anni a fargli i maglioni.
Tutti gli abitanti andavano incontro ai reduci. Erano stanchi, venivano a piedi. Le città erano distrutte e bombardate: tornare a casa era difficile.
E poi un giorno è arrivato Lorenzo.
Ecco, io ho capito davvero cos’era la guerra solo quando è tornato lui.
Sto male ogni volta che ci penso.
Lorenzo era stato prigioniero in un campo di concentramento: la Risiera di San Sabba, vicino a Trieste.
Quando è tornato, nessuno è sceso in piazza, perché avevano detto che stava male, che tornava per morire. Solo i suoi anziani genitori gli andarono incontro.
Noi eravamo tutti lassù, nel quartiere, ad aspettare.
Poi l’abbiamo visto arrivare: uno scheletro che camminava in un cappotto militare troppo grande. La mamma lo reggeva da un braccio, il papà dall’altro.
Tutto il paese era in silenzio. Nessuno si è mosso. Eravamo impietriti.
Lui ha mosso solo gli occhi, come per salutarci.
È andato a casa. Una settimana dopo è morto.